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Vita e filosofia di Shaftesbury

Pensiero e vita del filosofo Shaftesbury.

Accanto alla formulazione di tesi deistiche, la riflessione morale rappresenta uno dei maggiori contributi forniti dalla filosofia inglese all’illuminismo europeo; in questo senso ò particolarmente significativa la figura di Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury (Londra 1671 – Napoli 1713) e nipote del primo conte di Shaftesbury, che fu amico di John Locke. Le sue opere furono da lui stesso raccolte in un unico volume dal titolo ” Caratteristiche di uomini, costumi, opinioni, tempi ” (1711). Il più propriamente illuministico di questi scritti ò probabilmente il primo, la ” Lettera sull’entusiasmo ” (1708), in cui Shaftesbury mette in guardia gli uomini contro il pericolo del fanatismo, dell’intolleranza, della prepotenza di chi crede di avere sempre ragione. All’ entusiasmo (che nella terminologia dell’epoca esprime appunto questi gravi difetti), Shaftesbury contrappone un tollerante senso dello humour. In tema di filosofia morale, Shaftesbury ò specialmente preoccupato, come la stragrande maggioranza dei pensatori del suo tempo, di combattere lo sctticismo etico e l’individualismo egoistico di Hobbes. Alla concezione pessimistica e conflittuale che Hobbes ha della natura umana (“homo homini lupus”), egli contrappone una prospettiva, desunta dal platonismo di Cambridge, che si fonda sull’ ottimismo e sull’ armonicismo (contro questa posizione shaftesburyana si schiererà , in quegli anni, Bernard de Mandeville). L’universo ò un sistema ordinato, in cui le leggi più generali sono armonicamente connesse a quelle più particolari e ciò si riflette anche dal piano metafisico a quello morale, dove il bene comune si accorda pienamente con quello individuale. In tale prospettiva, dunque, non c’ò alcun conflitto tra egoismo e altruismo, dal momento che, quando l’interesse privato viene guidato da “scelte razionali” che tengono conto dell’interesse comune, l’individuo raggiunge la più alta felicità  individuale nello stesso perseguimento del bene universale. Sbaglia, quindi, Hobbes a dire che nello stato di natura gli uomini si trovano in uno stato di guerra di ciascuno contro tutti gli altri (“bellum omnium contra omnes”), perchè, nell’ottica hobbesiana, ciascuno di essi ha tanto la capacità  quanto la volontà  di nuocere al prossimo, cosicchò l’unica via di salvezza ò data dalla convivenza sociale regolata dalle ferree leggi di uno Stato che incombe come un Leviatano, come un mostro biblico che incute terrore. Per Shaftesbury non ò affatto vero: viceversa, l’uomo ò spontaneamente incline alla società  con gli altri uomini poichè l’istinto sociale ò insito nella sua stessa disposizione naturale. La soluzione prospettata da Shaftesbury godrà  di gran successo: sarà  condivisa dalla maggior parte dei filosofi settecenteschi, sia inglesi sia continentali, anche se non sempre verrà  accolta anche la cornice armonicistica in cui essa si colloca. Il principio da cui muove Shaftesbury nella sua argomentazione ò il seguente: ” se in una creatura o in una specie v’ò qualche cosa di naturale, ò ciò che contribuisce alla conservazione della specie stessa e determina il suo benessere e la sua prosperità  ” ( ” Sensus communis “, III, 2). Anche per Hobbes la conservazione di se stessi era un principio naturale, ma da esso egli traeva conclusioni antitetiche rispetto a quelle di Shaftesbury: proprio il naturale diritto a conservare la propria vita e la propria integrità  fisica autorizza l’uomo, nello stato di natura, ad aggredire il suo vicino per difendersi da lui prevenendolo; per Shaftesbury, al contrario, l’istinto di autoconservazione porta alla ricerca della società  con gli altri uomini e alla tutela dell’umanità  in generale: ” se c’ò qualche senso o appetito che sia naturale, tale ò anche il senso della comunità  “; ed ò soprattutto nella guerra, per quanto odiosa essa sia, che si manifesta il comune senso di appartenenza alla società  e di amore per essa: ” ò strano pensare che la guerra, la quale appare la più selvaggia di tutte le azioni, possa appassionare gli spiriti più eroici. Ma ò appunto in guerra che si serra più forte il nodo della fraternità . E’ in guerra che più si esercita il mutuo soccorso, più ci si espone al comune pericolo, più si coltiva e si pone a frutto il comune affetto. Eroismo e filantropia sono una cosa sola “. Per guidare l’uomo verso le giuste scelte morali non ò però sufficiente la ragione, secondo l’illusione del razionalismo di marca cartesiana. Alla debolezza della ragione sopperisce un particolare sentimento, detto senso morale, che comporta l’immediata percezione della differenza tra bene e male, in quanto mostra la bellezza intrinseca alle buone azioni e fa provare un naturale senso di disgusto per quelle cattive. In questa connessione tra senso morale e gusto, ossia tra elemento etico ed elemento estetico, Shaftesbury rivela ancora una volta l’influenza del platonismo maturato a Cambridge; egli sostiene, però, la completa autonomia della morale dalla religione: le leggi morali non derivano dal fatto che Dio ò buono e giusto, bensì, viceversa, Dio ò tale in quanto esistono una giustizia e una bontà  in sè, riconosciute nella loro oggettività  tanto dagli uomini quanto da Dio. Per riagganciarsi famoso interrogativo posto da Platone nell’ “Eutifrone”, se le cose sono belle e giuste perchè piacciono a Dio o, al contrario, piacciono a Dio perchè sono belle e giuste, Shaftesbury non avrebbe dubbio alcuno nell’optare per la seconda possibilità . Percepire il bene o il male significa, ad avviso di Shaftesbury, avere sentore di un’armonia o di una disarmonia proprio come avviene nel giudizio estetico; la virtù non si fonda sulla rivelazione divina, ma, al contrario, poichè l’uomo ò naturalmente virtuoso, ò la retta coscienza ad ispirare la fede in Dio. Pur respingendo l’esistenza di idee innate, Shaftesbury difende il valore dell’innatismo, da lui considerato però come concordanza con la natura e conformità  all’istinto, in opposizione a tutto ciò che deriva dalla cultura e dall’educazione. Tale innatismo non ha quindi un valore razionale, ma sentimentale, poichè si fonda sui sentimenti immediati, innati nell’uomo. Tali sentimenti vengono posti a fondamento della vita morale, religiosa ed estetica dell’uomo. L’uomo possiede un “sentimento morale” che nasce dall’istinto naturale e che si oppone alle passioni disordinate. Dato che tutto nell’universo ò conforme ad un ordine buono, il sentimento morale altro non ò che aspirazione all’ordine e all’armonia. Dapprima questo si configura come un’aspirazione all’equilibrio tra egoismo ed altruismo, poi come tendenza all’armonia sociale e, infine, come un abbandono nell’unità  ed armonia universali. Tale virtù si identifica con un altro sentimento: l’ intuizione del bello. Saper cogliere l’ordine e l’armonia del tutto, significa altresì saper cogliere il pensiero e la presenza di Dio, immanente al creato. Ecco allora che la filosofia di Shaftesbury sfocia nel panteismo, quasi a costituire una sorta di remoto preludio al romanticismo. In ” Consigli a un autore “, pubblicati nel 1710, (opera piena di arguzia, intelligenza, spinto di tolleranza e profondità ) Shaftesbury sostiene che ciò che viene solitamente denominato “dare consigli” ò una parte rilevante dell’attività  degli scrittori o, come diremmo oggi, degli intellettuali. Ma non ò per nulla facile fare dei consigli un dono gratuito. Colui che li impartisce tende principalmente a far mostra della propria saggezza a spese altrui e colui che dovrebbe riceverli ò in genere disposto ad accettare la figura di un maestro in matematica, in musica, o in qualsiasi altra scienza, ma non certo in intelligenza e buon senso. Ciò nonostante tutti gli autori – esplicitamente o meno si dichiarano, per la loro epoca, maestri di intelligenza. L’aspirazione dell’operetta di Shaftesbury non ò quella di dare consigli, ma di valutare i modi di dare consigli. Il compito non ò superiore a quello che si propone un insegnante di lingue o di logica, ma il problema, in questo caso, va considerato come un caso particolare di chirurgia. In quest’ultima contano insieme e contemporaneamente la compassione, la delicatezza della mano e la fermezza e l’audacia. Su chi esercitare un’arte siffatta? Come trovare un paziente cosi docile con il quale si possa procedere con rapidità  e decisione e verso il quale si sia certi di conservare la massima delicatezza possibile? La soluzione ò una sola: ricorrere a quel soliloquio che ò da sempre prerogativa dei poeti e che, mediante una vera e propria arte della dissezione, trasforma una persona in due persone distinte. Si ò insieme discepolo e precettore, insegnante e allievo, si impara la difficile arte del controllo. Ci si rende conto che preferiremmo essere insolentiti dagli altri piuttosto che venire accusati da noi stessi. Un vero, costante colloquio con se stessi può configurarsi come una forma di autoaddestrarnento, può anche presentarsi come un argine ai detestabili grandi parlatori nelle pubbliche assemblee che sono del tutto incapaci di parlare con se stessi e che di questo hanno letteralmente paura. Shaftesbury sta davvero alle origini dell’etica dei moderni o, meglio, ò l’idea stessa di modernità  che si pone nelle sue pagine come problema etico. L’entusiasmo ò alla base dell’ispirazione che anima i poeti, gli artisti e i filosofi, ma anche i politici e gli eroi; va invece ripudiata la passione, nei confronti della quale consiglio come antidoto il buonumore. Come spiega nel ” Saggio sulla libertà  dello spirito umoristico “, che ò scritto sotto forma di una lettera a un amico, esistono varie forme di umorismo satirico, che varia secondo la libertà  di pensiero di ognuno. In qualunque modo si voglia considerare l’umorismo, Shaftesbury lo ritiene un rimedio contro l’eccessivo zelo in qualsiasi campo: nella morale, nella politica ed anche nella religione.

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