Sà¶ren Kierkegaard nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813. Il padre, un commerciante agiato, non aveva avuto figli dalla prima moglie; dalla seconda invece ne ebbe sette, dei quali Kierkegaard fu l’ultimo. Fu proprio il padre che indirizzò il giovane Kierkegaard verso l’esperienza pietistica della comunità religiosa dei Fratelli Moravi: l’educazione ricevuto fu quindi piuttosto severa e caratterizzata da una valutazione negativa della cristianità protestantica ufficiale della Danimarca di allora. Nel 1830 si iscrisse all’Università di Copenaghen e dopo undici anni si laureò. Durante il periodo universitario, egli partecipò al movimento religioso-riformistico di tendenza grundtvigiana, professando idee social-cristiane: nel giovane Kierkegaard vi ò più la preoccupazione di una riforma ecclesiale pietistica che abbia un riflesso anche nei rapporti sociali della società civile, che non la preoccupazione di sviluppare una ricerca teologica autonoma. Grundtvig infatti aveva capito che la Bibbia non poteva resistere da sola agli attacchi della filosofia hegeliana, per cui aveva puntato l’attenzione sulla riforma pratica della chiesa protestante. Durante il periodo universitario Kierkegaard fu anche presidente della Lega degli studenti, attaccando soprattutto le idee liberal-borghesi di rinnovamento democratico. La sua posizione non era molto dissimile da quella dell’ultimo Schelling, che si illudeva di poter superare l’hegelismo accentuando l’importanza della religione. Nella tesi di laurea del ’41, Sul concetto dell’ironia (in riferimento costante a Socrate), pubblicata lo stesso anno, Kierkegaard prende posizione contro il romanticismo estetico, evasivo, estraniato, dei fratelli Schlegel, di Tieck e Solger, mettendosi dalla parte di Hegel. Quel tipo di romanticismo -che secondo lui proviene dalla filosofia dell’IO di Fichte- gli appare troppo soggettivistico, in quanto tende a contrapporre unilateralmente il soggetto alla realtà . Nella tesi Kierkegaard accetta la critica romantica del mondo piccolo-borghese (“lo squallido perbenismo bacchettone”, come lo chiama) e del vuoto sentimentalismo di questo mondo, ma allo stesso tempo rifiuta che lo strumento di tale critica -appunto l’ironia- venga usato come fine a se stesso, in totale dispregio dello Stato, della società civile e della famiglia, e ciò in nome di una mera valorizzazione intellettualistica del passato mitologico. L’ironia romantica ò per Kierkegaard fonte di isolamento. Contro i romantici tedeschi e danesi, egli oppone Goethe e Shakespeare, ove l’ironia ò “dominata”, cioò ò solo un “momento”, non una condizione di vita. Kierkegaard accetta anche la critica di Hegel a Socrate, secondo cui col principio di ironia Socrate si era posto al di sopra dello Stato e della famiglia, facendo della soggettività un assoluto, anche se proprio in tal modo Socrate potè in un certo senso fondare la morale, in quanto con lui l’individuo, nell’ambito della filosofia, inizia ad agire moralmente non per dovere ma per convinzione personale (mentre per i sofisti il bene coincideva con l’utile). Fin qui Kierkegaard la pensa come Hegel. Se ne distacca invece su due punti: 1) Hegel non avrebbe capito che Socrate criticava la decadenza di una realtà storica determinata, quella del suo tempo, per cui il suo atteggiamento ironico andrebbe contestualizzato, per essere meglio compreso; 2) Socrate non aveva alcuna intenzione di desumere dal principio teorico dell’ironia una qualche conseguenza pratica (se non quella di confondere gli avversari insegnando loro l’umiltà e il buon senso). L’ironia era per Socrate -dice Kierkegaard- una conseguenza determinata dalla prassi (il processo cioò era dal concreto all’astratto e tale rimaneva, mentre Hegel faceva esattamente il contrario). Socrate insomma avrebbe dato all’ironia -secondo Kierkegaard- un’importanza filosofica minore di quella che gli attribuisce Hegel. Non riuscendo a comprendere l’importanza maieutica, pedagogica, dell’ironia socratica Hegel non sarebbe neppure riuscito ad accettare il valore relativo dell’ironia. Hegel -secondo Kierkegaard- sarebbe approdato a tale svista perchè aveva accettato le interpretazioni idealistiche che Senofonte e Platone fecero del metodo socratico, rifiutando quella realistica di Aristofane, che secondo Kierkegaard ò la più vicina alla verità . Ma per un’altra ragione ancora Kierkegaard preferisce l’ironia socratica alla negazione dialettica (l’antitesi) della filosofia hegeliana (che secondo Kierkegaard in un certo senso si equivalgono): perchè mentre la dialettica hegeliana nega la contraddizione solo a livello speculativo, l’ironia socratica invece impegna la vita di una persona in maniera molto concreta, portando sino al sacrificio di sè. Come si può notare, quindi, il giovane Kierkegaard manifestava delle esigenze realistiche notevoli, con le quali mirava a superare le astrattezze dell’hegelismo dominante nell’università di Copenaghen. Tuttavia nel ’36 egli aveva già rotto i ponti con la Lega degli studenti. Negli anni ’37-’38 si distacca anche dalla comunità morava, nella consapevolezza che la realizzazione delle riforme religiose non era immediatamente fattibile. Sempre in quegli anni passa ad insegnare latino in un liceo di Copenaghen, ma presto smette, non trovando comunicazione con gli studenti. Dopo la morte del padre riceve una cospicua eredità che in pratica gli permette di vivere di rendita. Una serie di lutti colpisce la sua famiglia per diversi anni: gli muoiono cinque fratelli. Egli addebita questo fatto a una punizione divina in seguito a una maledizione contro Dio che il padre aveva lanciato quando si trovava in ristrettezze. Dopo aver sostenuto un esame di teologia, nel ’40, che lo abilitava alla carriera ecclesiastica, compie un viaggio nello Jutland per rimettersi da una grave forma di esaurimento nervoso, e decide improvvisamente di fidanzarsi con Regina Olsen, anch’essa della comunità morava. La rottura del fidanzamento, non meno improvvisa, avviene l’anno dopo: Kierkegaard la giustificò appellandosi al cosiddetto “pungolo nella carne” (probabilmente un difetto fisico). Subito dopo aver rotto con Regina compie un viaggio a Berlino, per ascoltare le lezioni di Schelling, ma ne rimane profondamente deluso. Nel marzo del ’42 torna a Copenaghen, dando inizio alla sua vasta produzione letteraria. Nel ’43 pubblica quella che forse ò considerata la sua opera più significativa, Enten-Eller, che fu anche quella che gli diede maggior successo. Enten-Eller ò diviso in due parti e contiene in un certo la sintesi del pensiero estetico, religioso e fenomenologico del giovane Kierkegaard. Vi sono inclusi il Diario del seduttore (scritto per respingere Regina), i Diapsalmata (una serie di aforismi autobiografici), Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in cui Kierkegaard contesta il valore dell’associazionismo della sua epoca, anteponendogli quello dell’individualità isolata, tormentata, che si sacrifica -come Antigone- per il bene dell’ideale. In Enten-Eller vi ò anche Don Giovanni, gaudente esteta, e il testo che in lingua italiana ò stato tradotto con Aut-Aut, ma che in realtà ò la lunghissima Lettera dell’assessore Gugliemo, il testo più importante di Enten-Eller. Questa Lettera, pur apparendo nella seconda parte del volume, venne scritta per prima, ed essa, nel suo rifiuto della vita estetico-romantica, ò quella che meglio si ricollega alla tesi di laurea. Tuttavia, Kierkegaard, quando scrisse Enten-Eller non era in direzione dell’eticità o dell’impegno sociale (come il contenuto del testo lascia supporre), ma in direzione dell’intellettualismo astratto, individualistico, a sfondo mistico-religioso. Tant’ò che, nonostante il successo editoriale dell’opera, risultarono del tutto vani i tentativi di coinvolgerlo in una collaborazione culturale, filosofica (in riferimento soprattutto all’estetica), da parte dei vari circoli, club e riviste di Copenaghen. Con la pubblicazione di Enten -Eller Kierkegaard usciva ufficialmente dal mondo della cultura e dell’impegno sociale (egli rifiutò per sempre anche la carriera ecclesiastica).. Nel ’43 pubblica Timore e tremore, un libro sulla figura di Abramo. Con esso Kierkegaard antepone al dubbio della filosofia moderna (al cogito certesiano) la fede angosciata nell’Assoluto di un uomo (biblico) che non può mettersi in comunicazione con nessuno, sapendo di non poter essere capito. Kierkegaard si serve di Abramo per giustificare la sua nuova posizione sociale: l’individualismo religioso. Come Abramo, che esteriormente appariva un assassino, mentre interiormente era un uomo di fede, così Kierkegaard sa di apparire alla cittadinanza come una persona stravagante, anomala, inaffidabile, e proprio in virtù di questa incomprensione egli aspira a diventare qualcosa di “speciale”, di “unico”, nella consapevolezza delle proprie doti intellettuali e dei propri drammi interiori. L’approfondirsi del tema religioso ò appunto un riflesso del suo progressivo disimpegno sociale. Lo si nota molto bene nell’interpretazione del sacrificio di Isacco, che risulta forzata in quanto Kierkegaard estrapola l’episodio dal contesto storico-sociale in cui ò avvenuto o comunque in cui ò stato elaborato. La decisione di Abramo di sacrificare il figlio appare come la risposta a un ordine irrevocabile di Dio, e non come il frutto di una decisione interiore, personale, maturata con grande angoscia. L’angoscia che prova Abramo ò nei confronti di una chiamata esterna, a lui superiore, alla quale non può disobbedire. L’Abramo di Kierkegaard ha una fede per la quale solo Dio può dare delle risposte, ed ò già quindi una fede astratta, che si crea un Dio a propria immagine e somiglianza. La fede di Abramo viene descritta nella pretesa di una superiorità della religione nei confronti dell’etica hegeliana. Kierkegaard infatti risponde affermativamente a due domande poste nel libro: 1) Si dà una sospensione teleologica dell’etica? (cioò esiste la possibilità di far valere gli interessi religiosi del singolo su quelli etici della collettività ? ); 2) Esiste un dovere assoluto verso Dio? (che sia superiore assolutamente a tutti gli altri doveri verso la collettività ? ) Alla terza domanda: Dal punto di vista etico si può scusare il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer, Isacco sul suo progetto?, Kierkegaard fa capire che se l’etica lo giustifica essa ò in accordo con la religione, se essa invece non lo fa, allora la religione deve rivendicare la propria autonomia. Nel ’44 pubblica Il concetto dell’angoscia. Kierkegaard ne aveva già parlato trattando le figure di Antigone, Agamennone, Jefte e soprattutto Abramo. L’importanza che il libro ebbe nella Kierkegaard-Renaissance tedesca ò stata superiore al suo effettivo valore intrinseco. Il libro ò servito a Kierkegaard per dimostrare che l’angoscia conseguente alla rottura col mondo sociale era uno stato d’animo inevitabile, come fu in un certo senso inevitabile il peccato originale per Adamo. Angoscia vuol dire “possibilità della libertà “, quindi in teoria il peccato non ò inevitabile. Tuttavia Kierkegaard fa dipendere la colpa dal fatto che l’oggetto di questa possibilità ò il “nulla”. Ovverosia, l’innocente Adamo ò angosciato dal fatto che nel suo stato di beatitudine eterna (che ò ignorante) non c’ò “niente contro cui lottare”. Il suo peccato non era necessario (altrimenti la nozione di libertà perderebbe di senso), ma non era neppure evitabile, in quanto il “nulla” non offriva alternative. In tal modo Kierkegaard può giustificare la sua rottura col mondo sociale: egli può relativizzare il proprio “peccato” sostenendo che non c’erano valide alternative per non farlo. Da questo “peccato” egli, come Adamo, si ò poi salvato col pentimento, riponendo ogni fiducia in Dio. Nello stesso anno pubblica Briciole di filosofia. La tensione drammatica dei testi precedenti ò notevolmente ridimensionata. Ora Kierkegaard traduce sul piano filosofico le riflessioni maturate su quello psico-religioso. Egli inoltre cerca di dare un fondamento filosofico alla propria concezione religiosa dell’esistenza. I concetti che va elaborando, oltre a quello di “singolo”, sono: “paradosso” (in antitesi alla mediazione hegeliana dei contrari: la mediazione ò concettuale, l’esistenza ò paradossale perchè unica, irriducibile alla comprensione adeguata del pensiero), “scandalo” (che ò -secondo Kierkegaard- il vero volto del dubbio cartesiano e di tutta la filosofia moderna, che ha voluto staccarsi dalla religione), “contemporaneità ” (in antitesi al concetto hegeliano di “divenire storico”: per il singolo la storia si riduce a un nulla, in quanto il problema di realizzare una “beatitudine eterna” nella storia gli si presenta nella sua assoluta radicalità e la storia non gli ò di nessuno aiuto ai fini della realizzazione). Il singolo di Kierkegaard deve essere consapevole di vivere un’esistenza unica, paradossale e, in quanto “discepolo di Cristo” (perchè il singolo si definisce “cristiano” o almeno intenzionato a diventarlo) deve anche sentirsi “contemporaneo” a lui, aldilà dello sviluppo storico, anzi contro questo stesso sviluppo, che ha ridotto l’esperienza cristiana a una banalità , a una ovvietà (si ò cristiani in massa, solo perchè si viene battezzati, solo perchè si vive in un certo Stato ecc. -dice Kierkegaard). In questa “contemporaneità ” la fede del singolo non può che destare “scandalo” nell’interlocutore, che si sente già cristiano e che non dubita della propria fede. Lo scandalo mette in crisi le certezze acquisite, le conquiste del passato. Kierkegaard rifiuta il concetto di “divenire storico” in quanto la storia ha tradito Cristo. Con questo saggio prosegue la critica, iniziata con Timore e tremore, dell’ufficialità protestantica della Chiesa danese, anche se questa polemica, per il momento, passa attraverso la critica dell’hegelismo. Da notare comunque che Kierkegaard non ha mai accettato di definirsi “filosofo”: anche quando scriveva di filosofia egli preferiva definirsi col termine di “scrittore religioso” o “edificante” (la sua, semmai, ò una filosofia della religione). Alle Briciole seguirà nel ’46 la monumentale Postilla conclusiva non scientifica. A partire da questo volume (che secondo Kierkegaard doveva essere un’antitesi alla Logica di Hegel), Kierkegaard si lamenta di non avere più un interlocutore. Nelle Briciole, infatti, il “re senza terra”, lo “scrittore senza pretese” -come si autodefinisce nel Concetto dell’angoscia) crede ancora nel valore di un pubblico riconoscimento della sua produzione letteraria. Ma nella Prefazione della Postilla -visto il pessimo risultato editoriale delle Briciole- cambia completamente parere, chiarendo anzi che la celebrità ò un grave impedimento alla realizzazione del suo ideale religioso. Così pure afferma nel discorso edificante Vangelo delle sofferenze, edito sempre nel ’46, ove esalta la figura di Giobbe. Tuttavia, i fatti successivi al ’48 dimostreranno che Kierkegaard non era affatto alieno dal desiderare una pubblica notorietà . Con la Postilla -di cui riuscirà a vendere solo 50 copie- l’intenzione di Kierkegaard era quella di concludere la sua attività di scrittore: lo attesta il fatto che con essa egli fa un bilancio di tutta la sua precedente produzione letteraria, rivelando al pubblico, che peraltro già lo sapeva, chi si celava dietro i diversi pseudonimi usati per i suoi libri. A chiudere tale attività l’aveva indotto anche la polemica con la rivista satirica Il corsaro, che lo prese in giro per diversi mesi, facendo colpo sul pubblico. Il giornale venne chiuso dal governo e il direttore espulso dal paese per “indegnità morale”, ma Kierkegaard se ne risentì profondamente, anche perchè pochissimi avevano preso le sue difese. Egli aveva sopportato gli scherni perchè così gli sembrava di adempiere al compito di testimoniare una verità religiosa, ma ciò non era avvenuto senza profondi drammi personali. Nella vita di Kierkegaard gli avvenimenti esteriori sono molto pochi ma, a causa del suo autoisolamento, essi venivano ad acquistare un’importanza eccezionale per la sua coscienza. Kierkegaard voleva essere uno scrittore per il popolo, o meglio per i molti singoli della società : Il corsaro invece aveva capito ch’egli altro non era che uno “scrittore per scrittori”, cioò un’individualità astratta, isolata, con pretese sproporzionate rispetto alle sue forze. Nella Postilla comunque il disprezzo per la socialità raggiunge forme di particolare conservatorismo filo-monarchico. Kierkegaard teme chiaramente le idee liberali, democratiche e socialiste. Tuttavia, nella Postilla la rottura col pubblico non ò così esacerbata come lo sarà nella Malattia mortale e nell’Esercizio del cristianesimo. Forse perchè la sua posizione esistenziale restava, in ultima istanza, ancora troppo poco determinata: lui stesso la definisce “umoristica”. “Climacus” (lo pseudonimo scelto per i due volumi di filosofia) ò un “umorista privatista”, cioò un intellettuale indifferente alle vicende della vita, ò un “poeta”, “senza autorità “, senza essere seguace di alcun partito, ha solo il senso del “comico” (che ò tipico delle nature malinconiche) e scrive per il gusto di scrivere, senza sentirsi coinvolto sino in fondo in quello che dice. La sua preoccupazione ò quella di porre il problema di come vivere il cristianesimo, non ò quella di dimostrare come vada vissuto concretamente. “Climacus” non ò cristiano ma ò impegnato a diventarlo. La Postilla vuole anzitutto essere un testo anti-hegeliano. Essa rappresenta il tentativo di fare del cristianesimo un’esigenza personale, non solo l’oggetto di una speculazione intellettuale. In questo senso la filosofia di Kierkegaard ò sempre una filosofia religiosa o della religione. Ciò che più gli interessa non ò il problema “oggettivo” della verità , cioò non gli interessa discutere sulla verità oggettiva del cristianesimo, poichè questa verità egli la dà per scontata. Il problema per lui ò dimostrare soggettivamente il valore di questa verità . La speculazione, le prove ontologiche dell’esistenza di Dio, la tradizione, la Bibbia, la considerazione storica…: tutto ciò o ò tautologico (in quanto non dimostra soggettivamente ciò in cui dice di credere oggettivamente) o ò ipocrisia (in quanto dice il contrario di quello che vive, di quello che ò la realtà ). L’oggettività o ò falsa o non serve, in quanto non può provare nulla. Per Kierkegaard ò definitivamente tramontato il tempo in cui il cristiano può considerarsi tale solo perchè dice di credere nelle verità di fede della chiesa. La sua propria religiosità deve dimostrarla nei fatti, coll’atteggiamento personale. Tuttavia nella Postilla Kierkegaard arriva a tale consapevolezza solo a livello teoretico, con l’affermazione principale che “la verità ò la soggettività “, che vuol dire: solo nel modo come il soggetto vive la verità si può comprendere se questa verità ò per lui autentica, genuina, profonda. Il criterio della verità ò la pratica della verità stessa. Questa pratica per Kierkegaard ò eminentemente religiosa. La fede ò quella forma di interiorità (destinata a esplicitarsi in un giudizio di condanna della cristianità stabilita) che non si lascia oggettivare da alcunchè. La soggettività infatti ò la sola realtà che Kierkegaard sia disposto ad ammettere. Nel Vangelo delle sofferenze (1846) Kierkegaard fa coincidere espressamente “interiorità ” con “sofferenza”. Cioò la sofferenza ò il criterio della verità : senza pathos una qualunque verità ò astratta, non edificante. In particolare nel Vangelo delle sofferenze il singolo-Giobbe soffre da innocente davanti a Dio, pur pensando, umilmente, d’essere colpevole, poichè davanti a Dio l’uomo ha sempre torto. Kierkegaard dunque sa di non aver nulla da rimproverarsi davanti agli uomini, in quanto l’esteriorità della Chiesa trionfante ò chiaramente per lui una falsità . Nel ’46-’47 Kierkegaard scrisse anche il Libro su Adler, che però decise di non pubblicare. Il pastore protestante Adler aveva affermato nel ’42 d’aver avuto una rivelazione direttamente da Gesù Cristo sul problema dell’origine del male. La Chiesa danese, nella persona del primate Mynster, temendo l’eresia e diffidando della sincerità del pastore, decise di deporlo dalla carica. Kierkegaard prende a discutere del caso e concessis -com’egli afferma-, cioò dando per scontata la realtà della rivelazione, e si chiede in che modo Adler avrebbe dovuto agire per essere coerente sul piano esistenziale-religioso. A suo giudizio le alternative erano due: o attestava in modo incrollabile la propria rivelazione (ovviamente senza essere un pazzo), oppure la ritrattava pentendosi. Non avendo fatto nessuna delle due cose, Kierkegaard considera che la soluzione disciplinare di Mynster sia stata giusta. Il libro tuttavia non venne pubblicato. Grazie al comportamente errato di Adler, Kierkegaard crede d’aver capito che per dimostrare la propria irriducibile diversità religiosa, contro l’ordine costituito, bisogna essere coerenti sino in fondo, bisogna essere “determinati in carattere”, altrimenti ò meglio ridimensionare le pretese. Il libro non venne pubblicato appunto perchè Kierkegaard non si sentiva ancora pronto a sostenere la sfida della collettività , sentiva cioò di non poter ancora rappresentare un’efficace alternativa ad Adler. Quando il momento verrà , con gli avvenimenti del ’48, che in pratica sconvolsero la situazione storico-sociale in modo tale da permettere più facilmente a Kierkegaard di rivendicare l’esigenza di un’alternativa religiosa al sistema, non ci sarà più motivo di pubblicare il Libro su Adler: la Malattia mortale e l’Esercizio del cristianesimo non solo ne riassumeranno magistralmente i contenuti fondamentali, ma costituiranno anche un notevole passo in avanti. Nel Libro su Adler Kierkegaard mise l’accento sul fatto che il singolo straordinario dev’essere riconoscibile dall’essere disposto a sacrificarsi per il bene dell’ideale. Il testimone della verità coincide -a suo giudizio- con il “martire della fede”. L’attacco all’ordine stabilito deve essere ben meditato, poichè qui ò in gioco la stessa identità del cristiano, il quale, quando deciderà di uscire allo scoperto, saprà in anticipo di non essere capito, rappresentando egli, nel momento, un paradosso che desta scandalo. In effetti, Kierkegaard si servirà della emergente democrazia sociale non per contestare il sistema monarchico-aristocratico (lui stesso, in fondo, vivendo di rendita, si sentiva dalla parte dell’aristocrazia, seppure solo nella veste dell’intellettuale), ma se ne serve per contestare la cristianità stabilita della chiesa protestante (benchè la sua polemica possa essere estesa a tutte le religioni compromesse col potere politico-statale). Nei suoi dialoghi col re Cristiano VIII egli esprimerà sempre delle posizioni nettamente anti-democratiche. Egli aveva cominciato ad attaccare i pastori protestanti sin da Timore e tremore, ma in chiave pseudonimica e senza particolare astio (il suo vero nome lo riservava alla cosiddetta “produzione edificante”, che ò una sorta di teologia morale, non molto significativa). Nella Postilla Kierkegaard ebbe nei riguardi di Mynster due atteggiamenti: uno di solidarietà contro le pretese riformatrici di vari leaders religiosi (il primo dei quali era Grundtvig); un altro di critica per motivi di ordine personale: da un lato gli rimprovera l’incomprensione della natura dei Discorsi edificanti, giudicati da Mynster troppo filosofici, mentre per Kierkegaaard volevano appunto essere dei “discorsi” e non delle “prediche”; dall’altro Kierkegaard rifiuta l’espressione “sublime menzogna” calibrata dal vescovo per Timore e tremore. Ciò che però turbò particolarmente il vescovo -a detta di Kierkegaard- furono gli Atti dell’amore. Durante le polemiche scatenate dal Corsaro, il vescovo non si preoccupò affatto di sostenere la posizione di Kierkegaard, anzi nel saggio sulla Situazione della chiesa in Danimarca egli arrivò a giudicarla negativamente, mettendola sullo stesso piano del direttore del giornale. Dopo la pubblicazione, nel ’48, della Malattia mortale, Mynster rifiuterà di concedere a Kierkegaard, che glielo aveva chiesto, un posto come professore al seminario di Copenaghen. Tuttavia un attacco diretto contro Mynster, Kierkegaard lo sferrerà solo alla fine della sua vita. Nell’Esame di coscienza del ’51 continua a prendere le sue difese e in un articolo su Faedrelandet si espone addirittura contro l’introduzione del matrimonio civile proposta dal teologo Rudelbach, rivendicando l’unità di Stato e chiesa. Il rapporto di Kierkegaard col vescovo Mynster ò importante perchò esso riassume tutto il suo rapporto col protestantesimo quale religione ufficiale del suo paese. Mynster era la più alta autorità della chiesa ed era stato cappellano del padre di Kierkegaard. Kierkegaard ha sempre sostenuto, una volta rotto col pietismo, la posizione di Mynster contro il riformismo socio-religioso di base, ma lo ha sempre contestato (seppure in forma indiretta: la forma diretta la riservava al Diario) quando lo vedeva scendere a compromessi col potere democratico-borghese. Kierkegaard voleva che Mynster accentuasse di più gli aspetti che secondo lui avrebbero potuto scuotere la cristianità stabilita: ovvero, la sofferenza, la paradossalità della fede, la critica del cristianesimo di massa, la contemporaneità col Cristo, la decisione esistenziale, il senso dell’infinita distanza tra uomo e Dio, la coscienza del peccato, l’esigenza di testimoniare la verità in modo personale, ecc. Tutto ciò per Kierkegaard aveva senso in un’ottica (quella della “opposizione agli altri”, cioò a quelli che si credevano cristiani solo perchè battezzati), in cui difficilmente Mynster avrebbe potuto trovarsi d’accordo. Kierkegaard infatti era considerato dai funzionari clericali come “un’esagerazione ridicola” e pertanto era guardato con sospetto. Dal canto suo, Kierkegaard non pretendeva d’essere considerato come un modello da imitare, poichè gli era estranea l’intenzione di costruire strutture e realtà sociali in cui i suoi ideali potessero meglio esprimersi. Egli voleva soltanto essere considerato come un “poeta” che aveva saputo evocare l’esigenza di una vita cristiana più intensa, più personalizzata. Voleva cioò essere riconosciuto per l’autorevolezza del suo pensiero non della sua persona. L’esperienza del ’48 troverà però Kierkegaard completamente spiazzato. I movimenti riformistici di base (specie il pietismo) non lo riconoscono più come un loro seguace; quelli di carattere laico-borghese da tempo non gli interessano, anzi li detesta profondamente; l’ufficialità protestantica, nella persona di Mynster, tende ad emarginarlo progressivamente, dovendo ora affrontare la spinta propulsiva dei suddetti movimenti, che rischiano di incrinare la facciata dello status quo, come poi in effetti avverrà . Mynster -dirà Kierkegaard- pur di conservare il potere, cercherà di compiacersi anche le forze democratiche. Tutto ciò fa sentire Kierkegaard una vittima delle circostanze, un escluso dalle vicende del suo tempo, addirittura un “tradito” dal vescovo nei cui confronti ha sempre nutrito amore e odio. Ecco perchè, ad un certo punto, pretende, a titolo di riparazione del torto subìto, che il vescovo affermi pubblicamente d’essere stato un puro e semplice “declamatore domenicale”, uno “scaltro eudemonista mondano”… La malattia mortale, in questo senso, denunciava che il concetto di “cristianità ” equivale al “rifiuto di pentirsi”. A giudizio di Kierkegaard i cristiani di oggi sanno di essere “pagani” però dicono di essere “cristiani” (e la filosofia hegeliana e la teologia sistematica non fanno che confermare questa falsità ). Fede, paradosso e dogma si oppongono al paganesimo, ma siccome il cristianesimo odierno conosce, pur senza viverli, questi tre concetti, occorre una nuova determinazione esistenziale per dimostrare ch’essi sono veri: il singolo (da notare che nella Malattia mortale Kierkegaard si serve del “pungolo nella carne” come prova di una particolare elezione del singolo, voluta da Dio: in virtù del “pungolo” il singolo avrebbe capito che aveva una missione speciale da compiere). Nell’Esercizio del cristianesimo egli afferma che Dio si serve del singolo per far uscire l’ordine stabilito dal suo autocompiacimento. L’ambizione del singolo ò quella di essere direttamente contemporaneo a Cristo, tanto da dover apparire, agli occhi dei suoi contemporanei, come lui, cioò come un singolo che lotta contro il sistema sacrificandosi fino al martirio. Kierkegaard ha bisogno di porre in atto la possibilità dello scandalo, da cui può sorgere la fede, al fine di dimostrare al sistema che la sua alternativa ò l’unica praticabile, recuperando così la profondità del cristianesimo. Nell’Esercizio Kierkegaard torna a parlare della collisione del pietismo coll’ordine stabilito, ma egli pensa di aver fatto molto di più. Egli avrebbe rifiutato l’esperienza pietistica perchè come singolo la possibilità dello scandalo gli era parsa superiore. La comunità -dice Kierkegaard- ò “un’anticipazione impaziente dell’eternità “, mentre essere singoli significa lottare contro tutti, poichè la storia ò il tempo della lotta, mentre l’eternità ò la felicità della vittoria. La chiesa militante deve essere una chiesa di singoli. La possibilità dello scandalo ò qui superiore perchè nell’ambito del singolo la “comunicazione diretta” con l’interlocutore ò impossibile, cioò ò impossibile essere capiti, almeno finchè si ò vivi. Ciò ò per il singolo fonte di sofferenza, ma per l’interlocutore ò una prova della sua fede, la quale ò scelta esistenziale e non conclusione logica di un ragionamento. L’interlocutore deve credere nel singolo non per quello che fa ma per quello che dice. Infatti per quello che fa egli resta insignificante, ambiguo: il che però, rapportato a quello che dice, desta profondo scandalo. Questa “duplicità dialettica” deve far riflettere l’interlocutore e portarlo alla fede. Per indicare l’impossibilità della “comunicazione diretta” (che se ci fosse porterebbe l’interlocutore ad avere fede non in Dio ma nel singolo), Kierkegaard usa il termine “raddoppiamento maieutico” o “reduplicazione”. L’Esercizio del cristianesimo, che appare nel ’50, toccherà Mynster -dice Kierkegaard- “in misura estremamente dolorosa”, tanto che il vescovo reagirà bollandolo con l’apostrofe “un gioco empio con le cose sacre”. Con questo libro Kierkegaard in pratica rinunciava a una qualunque intesa colla cristianità : egli aveva messo in chiaro il suo punto di vista, ora poteva finalmente smettere di scrivere. Tuttavia nel ’51 pubblica, senza pseudonimo, Per l’esame di se stessi raccomandato ai contemporanei, ove esalta la figura dell’apostolo Giacomo (per la valorizzazione del concetto di “opere”) e la figura di Lutero per l’approfondimento del concetto che senza la fede le opere non servono a niente; alla fine condanna la cristianità per aver abolito fede ed opere. Naturalmente l’opera più importante ò per Kierkegaard “l’imitazione di Cristo”, che ò il contrario della superficiale ammirazione. Sempre nel ’51, per un tracollo finanziario, Kierkegaard perde molti suoi beni. Intanto nel Diario moltiplica i fogli come mai ha fatto. Gli attacchi contro la chiesa di stato, le comunità religiose, gli ordinamenti civili e le strutture sociali e democratiche che vanno emergendo, si sprecano. Le figure più bersagliate sono Mynster, Martensen e Grundtvig. Nel ’54 muore il vecchio vescovo. Al fiacco rigorismo del primate la chiesa danese si vede succedere il rigido conservatorismo dell’hegeliano Martensen. L’eclettismo kierkegaardiano veniva tagliato fuori una volta per sempre. Sfumata l’occasione di una pubblica autocritica di Mynster, Kierkegaard era di nuovo piombato nel suo vizio di sempre: l’ambiguità fra l’esigenza teoretica e l’esperienza pratica. Ciò che soprattutto l’opprimeva era l’indifferenza se non lo scherno del clero e della collettività dei credenti nei suoi confronti. Ma in assenza di un attacco diretto contro di lui, Kierkegaard non poteva essere matematicamente sicuro di aver colpito nel segno pubblicando l’Esercizio. L’occasione tuttavia non tardò a mostrarsi. Martensen fece l’elogio funebre di Mynster qualificandolo col termine di “testimone della verità “. Sul Faedrelandet Kierkegaard si chiede se veramente Mynster sia stato un “testimone della verità ” e risponde che lo sarebbe stato se avesse puntato di più l’attenzione sul precetto della mortificazione, dell’ascesi, della rinuncia volontario, dell’odiare se stessi e della sofferenza per la verità . Come può essere un testimone della verità -si chiede Kierkegaard- chi ha cercato il potere, il benessere, i compromessi? Martensen risponde che testimone della verità e martire non coincidono e che comunque non ò uno che vive un’esistenza malaticcia da singolo che può insegnare qualcosa a qualcuno. Questo bastò a far scoppiare la polemica su diversi giornali della capitale. Kierkegaard inizia a pubblicare molti articoli, opuscoli e nove fascicoli dal titolo Il momento. La tensione e lo sforzo intellettuale furono altissimi. Kierkegaard morirà nel corso di quella polemica (durata 4 mesi), convinto d’aver assolto il suo compito di testimone della verità in quanto appunto “martire” (il martirio era diventato per lui la suprema attestazione della verità della propria fede). Egli non ritrattò nulla di quello che gli chiese l’amico pietista Boesen sul letto di morte: peraltro già aveva scritto che non l’avrebbe fatto nell’Immutabilità di Dio, l’ultimo discorso edificante, dedicato al padre, pubblicato nel ’55; in esso Kierkegaard era convinto d’essere completamente nel giusto e che Dio fosse dalla sua parte. Morendo sotto i colpi dell’avversario egli era convinto di poter contribuire meglio all’affermazione della verità . Nell’ottobre del ’55 fu colto da malore e stramazzò per strada privo di sensi. Ricoverato in ospedale vi morì 40 giorni dopo, rifiutando qualunque rapporto col clero di stato e di accettare la riabilitazione indicata dai medici. Il decimo fascicolo del Momento venne trovato, pronto per essere stampato, sulla sua scrivania. In questi fascicoli (che nella tr. italiana portano il titolo L’ora), Kierkegaard non polemizza solo con la chiesa protestante danese ma anche con lo Stato cristiano, che proprio per il fatto di dirsi “cristiano” impedisce la realizzazione del cristianesimo (cosa comunque possibile per Kierkegaard solo nell’aldilà ). In pratica egli chiedeva la separazione di Stato e chiesa. E’ evidente, infatti, che se si può essere cristiani solo in “opposizione” agli altri, qualunque compromesso/concordato/intesa politica ò insostenibile, poichè il cristianesimo di massa, mutando una religione della sofferenza in una religione del piacere (grazie alla quale ci si salva con poco), esclude di per sò la possibilità di diventare cristiani. La produzione filosofica e letteraria Cornelio Fabro evidenzia la forte connessione fra vita e produzione filosofica e letteraria in Kierkegaard. La produzione del filosofo può essere divisa in comunicazione indiretta o diretta a seconda che le opere presentino pseudonimi o il nome dell’autore. La produzione di Kierkegaard può essere divisa in tre gruppi. Le opere pseudonime ( che sono le più conosciute); e fra queste possiamo individuare due gruppi: quelle del tutto pseudonime (come Aut aut di Victor Eremita, Timore e tremore di Johannes de Silentio, La ripresa di Costantin Constantius, Il concetto dell’angoscia di Vigilius Haufniensis, Le prefazioni di Nicolas Notabene, Stadi sul cammino della vita di Frater Taciturnus) e quelle che hanno per editore Kierkegaard e l’autore pseudonimo (come Le briciole e La postilla di Johannes Climacus e La malattia mortale e L’esercizio del Cristianesimo di Anticlimacus). “I vari pseudonimi esprimono varie possibilità di esistenza in una sfera di idealità pura estetica, etica e religiosa. Non danno mai direttamente il pensiero e la vita reale (â¦), benchè svolgano anche pensieri suoi e siano sostanziati da fatti espressi e sottintesi dalla sua vita personale. Nella pseudonomia c’ò “une stratègie consciente de production et de communication en laquelle l’oeuvre trouve, au de là de la diversitè apparente de ses orientations, son unitè (… ). Les pseudonymes sont autant de figures existentilles fictives qui parlent chacune en leur nom en dèveloppant la perspective qui est la leur et il sent autant de manières dètournèes de rèvèler les possibilitès concròtes de l’existence”.
- 1800
- Filosofia - 1800