Versione tradotta dei Versi 485-527 delle Georgiche di Virgilio
Iamque pedem referens casus evaserat omnes;
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,
pone sequens, namque hanc dederat Proserpina legem,
cum subita
incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes.
Restitit Eurydicenque suam iam luce sub
ipsa
immemor heu! victusque animi respexit. Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta
tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis.
Illa, Quis et me, inquit, miseram et te perdidit, Orpheu,
quis
tantus furor? En iterum crudelia retro
Fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror
ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas!
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in
auras
commixtus tenues, fugit diversa, neque illum,
prensantem nequiquam umbras et multa
volentem
dicere, praeterea vidit, nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
Quid faceret? Quo se
rapta bis coniuge ferret?
Quo fletu Manis, quae numina voce moveret?
Illa quidem Stygia nabat iam frigida
cumba.
Septem illum totos perhibent ex ordine menses
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi et gelidis
haec evolvisse sub antris
mulcentem tigres et agentem carmine quercus;
qualis populea maerens philomela
sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
observans nido implumes detraxit; at illa
flet noctem ramoque
sedens miserabile carmen
integrat et maestis late loca questibus implet.
Nulla Venus, non ulli animum
flexere hymenaei.
Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Rhipaeis numquam viduata pruinis
lustrabat
raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens; spretae Ciconum quo munere matres
inter sacra deum
nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice
revulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua 525
ah
miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.
Versione tradotta
E già aveva oltrepassato tutte le
difficoltà indietreggiando il passoo, ed Euridice, ritornata procedeva verso il cielo superiore sequendolo dietro (e infatti
Proserpina aveva dato questo comando, quando una improvvisa pazzia prese l’icauto amante, certamente da perdonare, se i Mani
sapesero perdonare: si fermò, e guardò, immemore Oh!e vinto nell’animo, la sua Euridice appena sotto la stessa luce. Qui
tutta la fatica fu sciupata e i patti dell’aspro tiranno furono rotti, tre volte un rumore fu udito dal lago averno. Ella
disse: “Chi rovinò me misera e te, oh Orfeo, quale pazzia così grande? Ecco che di nuovo i crudeli fati mi chiamano indietro, e
il sonno fa cessare le luci naviganti. E ormai addio: sono portata, circondata, dalla grande notte e mentre tendo a te , oh!
non tua, lr mani invelide”. disse e, giratasi, immeditamente si allontanò dagli occhi, come il tenue fumo misto nell’aria, e
non vide lui che afferrava inutilmente le ombre e che voleva direm molte cose; nè il nocchiero dell’Orco accettò di fargli
passare di nuovo la palude messa davanti. Che cosa potrebbe fare? dove si trascinerà, rapita la coniuge 2 volte (dopo che la
coniuge fu rapita per 2 volte)? con quale lamento potrebbe commuovere i Mani, quali numi con la voce? Ella già navigava nella
fredda barchetta stigia. Narrano che egli si lamentò di se stesso per sette interi mesi secondo l’ordine sotto una rupe di
aria presso l’onda dello Strimone, e che ricordò queste sotto gli gelidi antri mentre placava le tigri e parlava alle
querce con una poesia: come il dolente usignolo si lamenta sotto l’ombra del pioppo dei figli persi, che il duro
aratoresottrasse quardando nel nido implume; ma ella piange la notte, sedendo sul ramo ricomincia il canto meraviglioso, e
riempe largamente di mesti lameti i luoghi. Nessuna Venere, nessun canto nuziale piegò l’animo: da solo rischiara i ghiacci
iperborei e il nevoso Tanai e le regioni mai prive dell’inverno rifeo, lamentandosi della rapita Euridice e dei doni
strappati da Dite. Le madri disprezzate dei Ciconi cosparsero con quel regalo il giovane, fatto a pezzi attraverso gli spazi
larghi, tra le cose sacre degli dei e nell’orgia notturna di Bacco. Allora,anche mentre Eagro Ebro volgeva il capo divelto
dalla marmorea cervice, mentre lo portava nel mezzo dei gorghi, la stessa voce e la fredda lingua chiamavano Euridice, ah!
misera Euridice: su tutto il fiume le rive riferivano “Euridice”.
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