Dal rapporto – l’11esimo – redatto dall’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia (ADI) ed intitolato “Psicopatologia del dottorato di ricerca”, vengono fuori le condizioni economiche, le abitudini di vita e lavorative e, più in generale, la valutazione complessiva del benessere di chi sta lavorando per ottenere, in Italia, tale titolo di studio. Il più alto che è possibile conseguire nella nostra Penisola. Cosa ne è emerso lo approfondiamo di seguito, ma vi anticipiamo già che non si tratta di un quadro roseo.
Dottorato in Italia, quali sono le condizioni
A partecipare all’indagine, basata sui dati raccolti nel 2023, sono stati più di 7000 iscritti a un dottorato. Dalle risposte fornite è emersa una situazione abbastanza preoccupante. Ad iniziare dall’aspetto economico. Nonostante il loro leggero aumento, le borse di dottorato (il cui minimo è attualmente fissato a 1195€ netti mensili) non sono sufficienti per far fronte alle esigenze economiche di chi ne sta seguendo uno. Addirittura, chi svolge il dottorato di ricerca in Italia non è in grado di mettere da parte dei risparmi né di fare fronte a delle spese impreviste.
Anche il benessere psicologico dei dottorandi è messo a dura prova, minato com’é dalle suddette preoccupazioni economiche unitamente a quelle derivanti dall’incertezza verso il futuro e dalle condizioni di lavoro stressanti che spesso non lasciano spazio ad altro. Il tutto porta le persone in questione (almeno la metà di loro) a sviluppare ansia, depressione e stress in misura maggiore se messe a confronto non solo con il resto della popolazione italiana, ma anche con chi svolge il dottorato al di fuori della Penisola.
Borse di dottorato più basse e mancata contrattualizzazione
Se quello della salute mentale è un problema che affligge anche questi ultimi (1 persona che svolge dottorato nei Paesi occidentali su 4 soffre di depressione e 1 su 6 di problemi di ansia), in Italia sembra essere aggravato da una serie di fattori. Ad iniziare dall’importo della borsa, che nella nostra penisola ammonta al 20-30% in meno rispetto a quella di paesi come Germania e Francia. Seguita dalla mancata contrattualizzazione del dottorato e dall’assenza di diritti codificati per chi lo svolge.
Come emerge dal rapporto dell’ADI, il dottorato in Italia viene sostanzialmente considerato un prolungamento del percorso di studio piuttosto che un periodo di formazione-lavoro. E ciò sia dal punto di vista amministrativo che da quello della gestione del carico di lavoro: chi segue un dottorato svolge orari di lavoro che sfiorano lo sfruttamento (il 51,4% degli intervistati ha dichiarato di lavorare più di 40 ore a settimana, l’11,9% di superare le 50 ore) e non ha diritto a ferie, permessi, maternità… Da entrambi i lati si generano risvolti negativi non indifferenti che vanno ad incidere sul benessere psicologico di chi è coinvolto.
Come affrontare questa “emergenza”
Ma non finisce qui, perché a rendere ancora più dura la vita dei dottorandi è il significativo aumento del costo degli affitti, specie nelle città universitarie. Come si evince dal rapporto “in 24 città su 40, che ospitano l’80,2% del totale dei posti di dottorato in Italia, l’affitto di un monolocale in centro è superiore al 30% della borsa”. Tenendo conto anche dell’aumento di quest’ultima.
Bene, ma come fare fronte a quella che può essere considerata a tutti gli effetti un’emergenza? Una possibile soluzione la propone la stessa ADI che, tramite le parole di Federico Chiariotti, suggerisce di “rendere il dottorato un vero e proprio lavoro, come accade nella maggioranza del Paesi europei”. Decisione che implicherebbe la necessità di codificare quei “diritti che al momento sono negati o dipendono dalla benevolenza del supervisor o del collegio dei docenti”.
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