Un’indagine condotta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con ITSRIGHT rivela la triste realtà del sistema di compensi nell’industria dello streaming musicale.
Lo streaming musicale ha rivoluzionato il modo in cui ascoltiamo la musica, offrendo accesso illimitato a un vastissimo repertorio di brani a prezzi accessibili o addirittura gratuitamente. Ma dietro la facciata di comodità e convenienza si cela un’amara realtà per gli artisti, la cui voce risuona sempre più flebile nel dibattito sul futuro della musica.
Un’indagine condotta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con ITSRIGHT, società di collecting che gestisce i diritti connessi di oltre 170mila, ha dipinto un quadro a dir poco sconfortante. Il 79,33% degli artisti intervistati, un campione di 300 professionisti della musica equamente divisi per genere e fascia d’età, ha dichiarato di non ricavare praticamente nulla o somme irrisorie dallo streaming.
Eppure le piattaforme su cui segnalano la propria presenza sono molte: più della metà del campione menziona YouTube (71,7%), Spotify (65%) e Apple Music (50%), alle quali si aggiungono Amazon Music (46%), Deezer (33,7%), Tidal (24%), QoBuz (14,3%) e Primephonic (5%).
Un paradosso inaccettabile
Dalla ricerca emerge quindi un paradosso inaccettabile: da un lato, le piattaforme di streaming generano miliardi di dollari di fatturato; dall’altro, gli artisti, i creatori della musica che alimenta questo sistema, ne vedono una minima parte. Il 40,3% degli intervistati non sa neanche quantificare i propri proventi dallo streaming, mentre il 26,3% guadagna meno di 100 euro all’anno. Ne deriva una diffusa fragilità economica, soprattutto nelle categorie degli interpreti, esecutori, produttori artistici e direttori d’orchestra: circa la metà del campione che ha partecipato all’indagine ha dichiarato che non è in grado di sostentarsi con la sola musica.
La ricerca ha anche evidenziato una preoccupante mancanza di tutele e trasparenza. Il 91,7% degli artisti non ha un contratto che regoli i compensi per lo streaming, mentre il 45% non ha mai ricevuto un rendiconto sulle performance dei propri brani. Le case discografiche, che spesso gestiscono i diritti degli artisti, sono considerate poco trasparenti dal 37,3% del campione.
Un grido d’allarme e una richiesta di cambiamento
I dati emersi dall’indagine sono un grido d’allarme che non può essere ignorato. Il sistema di compensi dello streaming musicale è iniquo e non sostenibile per gli artisti che chiedono una riforma urgente che garantisca loro un compenso equo e trasparente.
Per riequilibrare il sistema sono state avanzate diverse proposte. Tra queste, la creazione di un sistema di royalty basato sugli stream effettivi, anziché sui complicati algoritmi utilizzati dalle piattaforme; l’obbligo di rendicontazione trasparente da parte delle piattaforme e delle case discografiche; il riconoscimento del ruolo fondamentale degli artisti nel processo creativo.
Un appello all’industria e alle istituzioni
L’industria musicale e le istituzioni non possono più voltarsi dall’altra parte. È necessario un impegno concreto per dare voce alle preoccupazioni degli artisti e costruire un futuro più equo per la musica. Solo così si potrà dare vita a una vera e propria “democrazia dello streaming”, dove il valore della musica e il talento degli artisti siano finalmente riconosciuti e adeguatamente ricompensati. La ricerca condotta dall’Università Cattolica e ITSRIGHT rappresenta un punto di partenza fondamentale per un dibattito aperto e costruttivo.